E poi ti ritrovi a scrivere. Come sempre, bulimicamente
assetata di parole, affamata di quell’urgenza che solo la scrittura sa colmare.
Dipendente da quel foglio bianco che vuoi riempire.
Raccontare certe cose non è facile. Ma raccontarle quando le
hai passate è una liberazione. Un inno alla vita. Si, perché la vita ti ha
premiato con la vita, ti ha regalato quella felicità che si prova solo quando
riesci ancora a rialzarti esclamando ce
l’ho fatta. Lo sto scrivendo dalla mia scrivania e non più dal mio letto.
C’era una volta una bambina. Una bambina che ha fatto le
scale per diventare grande. Una bambina che contava sempre quei ventuno scalini
per arrivare in cima o per raggiungere la base di quelle scale che le
sembravano sempre troppo ripide, sia verso l’alto che verso il basso. Una
bambina diventata grande in un soffio di vento, lento oggi, un’eternità che non
si consumava mai, allora. Il tempo che vivi da bambino è cementato. Non passa
mai. Da grande, lo stesso tempo, è frusto. Rapido. Feroce. È come un tuono. Il
tempo di ora, è un tempo alla velocità della luce. Tic. Tac. Il tempo di un
bambino, è un tempo che suona le campane di mezzogiorno del sabato prima di
Pasqua. Din Don. Din Don. Din Don.
E diventi grande con le tue paure, con le tue incertezze e
con i sogni che fanno a cazzotti con la realtà. Diventi grande con il desiderio
di scappare che mette il cappio alla libertà. Diventi grande con il cuore che
prende scossoni che ti sembrano insostenibili, mentre invece, la vita, ci
regala solo ciò che possiamo sostenere, nulla di più, nulla di meno. Diventi
grande perché non puoi fare altro e perché crescendo scopri che ogni dolore di
prima è piccolo in confronto a quello di
ora. Diventi grande con la consapevolezza che la vita è un dono prezioso.
La vita è un miracolo.
Lo è all’alba, quando ti fermi a guardare il sole che sorge
e un groviglio allo stomaco ti fa mancare il respiro perché nell’aria senti il
profumo dell’uomo che ami.
Lo è al tramonto, quando nell’addormentarsi del sole, un
abbraccio ti coglie da dietro. Una stretta forte, un respiro tra i capelli e un
bacio all’orecchio ti dicono che arriverà quel brivido accaldato che aspettavi.
Lo è di notte, quando si consumano i respiri, ci si
scambiano i liquidi, gli odori diventano sostenibili, la voce si fa sottile e
il corpo si lascia andare sull’altalena della passione.
Lo è quando una canzone ti ricorda un momento, quando un
luogo diventa il tuo rifugio e quando una data diventa uno scrigno pieno di
roselline rosse.
Lo è quando a renderti felice è una lettera profumata,
consumata e ingiallita dallo scorrere delle lancette. In quel foglio ritrovi un
attimo di te e uno spiraglio di felicità che avevi chiuso in un cassetto.
Il miracolo della vita si consuma sempre in un letto. Un
giorno quel letto è il tuo carnefice e il giorno dopo quello stesso letto è il
detentore del tuo desiderio, la consapevolezza della tua femminilità, il pugno
caldo dei tuoi sogni. In un letto, che abbraccia la vita dalla nascita alla
morte, impariamo ad amare, desiderare, gemere, difendere, fantasticare, toccare
ma anche a soffrire, odiare, detestare, piangere. Il letto accoglie il nostro
vagito di rabbia o felicità con la stessa intensità senza esprimere giudizi,
senza dare sentenze o fare inutili processi.
In un letto veniamo appoggiati il primo giorno in cui
vediamo la luce e, sempre in un letto, veniamo adagiati l’ultimo giorno della
nostra vita. Nel mezzo del cammino c’è sempre un letto che identifichiamo come
il proprietario del nostro desiderio, dove consumiamo senza vergogna la nostra
libidine, dove rotoliamo il sudore della carne e dove divoriamo Kronos con i
gemiti.
Mi piace pensare che il mio letto o il letto di ognuno di
noi sia il custode di un qualche segreto da raccontare.
Mi piace pensare che il mio letto sia rosso come la mia
passione.
Mi piace pensare che il mio letto sia. Tic. Tac.
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