Quando ci
accostiamo a un’opera d’arte, senza altri interessi se non quello di sentirla il più intensamente possibile,
oltrepassiamo i limiti di ciò che non possiamo sapere, i limiti della nostra ragione. Secondo Kant e i romantici,
l’artista gioca liberamente con la sua facoltà conoscitiva e secondo Schiller, la
sua attività è come un gioco ed è solo quando l’essere umano gioca che diviene
libero perché è lui a creare le proprie leggi.
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Palazzo Te |
Giulio Romano ha
giocato sempre, ma soprattutto lo ha fatto, creando il palazzo del Te, la sfarzosa residenza di
Federico Gonzaga, costruita tra il 1526 e il 1534 sostituendola a una scuderia.
Un monumento singolare esente da limitazioni di carattere pratico e tecnico in
quanto Giulio aveva a disposizione mezzi i economici elargiti dalla famiglia
Gonzaga e la disponibilità da parte di Francesco che apprezzava la poliedricità
Giuliesca di essere architetto, artista erede di Raffaello e consigliere sulle
scelte della fastosa corte gonzaghesca. Una sede che non solo ha visto brillare
una dinastia sotto il profilo architettonico e artistico ma che ha avuto grandi
albe anche nella cucina dominata dalla personalità dello chef Bartolomeo
Stefani che, nel XVII secolo, scrisse un importante trattato di cucina in cui
faceva notare come gli alimenti non fossero mai “contro stagione”.
Mantova ha fatto
da cornice alla storia e ha visto passare sulla sua terra Matilde di Canossa e
poi la intelligente Isabella d’Este, questa città ha aperto la creatività di
artisti come Andrea Mantegna e architetti come Leon Battista Alberti e poi non
per ultimo ha sostenuto il genio, compreso per fortuna, di Giulio Romano che
l’ha portata a vette altissime. E a me ancora si chiede perché amo l’arte, beh,
una risposta ovvia se sono stata cullata sul cammino delle chiese matildiche,
ho fatto la prima comunione nel complesso Polironiano e ho giocato a nascondino
a Palazzo Te. Se andavo in bicicletta vicino al Palazzo di San Sebastiano e mi
sedevo a terra davanti alla camera degli sposi di Mantegna, che ve lo dico a fa? Amare Mantova è
quasi un obbligo, così come amare l’arte che la attraversa e la invade in ogni
suo briciolo di cemento.
Ancora una volta
Mantova è riuscita a stupirmi e lo ha fatto non con la solita, tutt’altro che
banale, vista della Rotonda di San Lorenzo, mi ha sorpresa riconducendomi per
l’ennesima volta sul viale del Te, all’ingresso di quel palazzo che mi ha vista
crescere e dove io cercavo rifugio ogni volta che la tristezza imperversava. Le
stanze dei Cavalli o quella dei Giganti erano per me come una visione
salvifica, una sorta di preghiera per esorcizzare il male, mi sedevo in mezzo
alla stanza e i cavalli mi guardavano o i giganti mi cadevano addosso. E poi
c’era quella sala, quella dove c’era una scena erotica di un uomo con il membro
dritto che quasi mi faceva mettere le mani davanti agli occhi, come se fosse un
tabù guardare una scena di sesso tra gli Dei, quella stanza in cui si
raccontava la favola più romantica e d’amore che si potesse dipingere, la
stanza di amore e Psiche. Quel luogo per me era pura magia, rappresentava la
realizzazione e il lieto fine di una storia tormentata che sbocciava in un
dolce abbraccio come nell’opera di Canova in cui Amore avvolge Psiche. Li, dove
l’elaborazione formale, iniziava soltando nella zona che sta al di sopra delle
porte, l’occhio spaziava nella profondità illimitata di lussureggianti paesaggi
popolati da figure mitologiche nude e selvagge intente nei loro baccanali
sparsi qua e la sopra la mia testa. Ovunque io guardassi, c’erano musicisti,
amorini, atti festaioli, c’erano banchetti, vino e fiori che riempivano le
scene. Ma ciò che più mi colpiva era la vicenda che si svolgeva nelle lunette e
nei compartimenti ottagonali del soffitto, un soffitto che non era solo
elemento di sfarzo ma concepito a guisa di una griglia attraverso la quale si
vedono, violentando la visione tradizionale a favole della testa all’ingiù, le
mutevoli fasi della meravigliosa fiaba di Apuleio.
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Pietro
Tenerani,
Psiche svenuta,
gesso
1822 -
Museo
di Roma
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Non credo che ci
sia Palazzo più significativo e stanza più bella al mondo che avrebbe potuto
ospitare la mostra che in questi giorni ha aperto a Palazzo Te, AMORE E PSICHE, la favola dell’anima. Una
mostra che ripercorre il tema dell’anima ricercandone le tracce simboliche e
archetipiche nell’arte. Le opere, dislocate negli spazi della residenza
gonzaghesca ci accompagnano alla riscoperta del mito di Amore e Psiche, favola
narrata da Apuleio nella sua opera più importante, tra il IV e il VI nel libro
de le Metamorfosi (o Asino d’oro), tra le righe, Apuleio ci trasmette
tuttora il fascino dell’enigma inestricabile, difficilissimo da risolvere e non
certo dall’interpretazione univoca.
Nel cuore di
questa storia l’autore intreccia, come se fosse un magico dono, la trama principale
e tante altre narrazioni secondarie incentrate sulla lussuria, sulla violenza e
sulla crudeltà dell’uomo, e non esita a calare la narrazione in spiazzanti
momenti da parodia.
“La favola racconta di una meravigliosa
principessa, Psiche, così bella da suscitare la gelosia di Venere, che la
condanna a sposare una creatura spregevole. Intanto il dio Amore, preso dal
fascino della giovane, decide invece di amarla, e ordina a Zefiro di
trasportarla nel suo castello incantato, accudita da ancelle dalla natura
incorporea. Quando Amore arriva dalla fanciulla le chiede di amarlo, ma ad una
sola condizione: di non guardare il suo volto. Ma saranno le invidiose sorelle
maggiori a spingere Psiche a compiere il peccato della curiosità, cioè a guardare il volto dello sposo e pronta ad
ucciderlo nel caso si fosse rivelato come un mostro crudele e sanguinario. Nel
tentativo di illuminare il suo volto, una goccia d’olio cade dalla lampada
usata da Psiche e sveglia Amore che, resosi conto del tradimento, fugge via lasciando
la fanciulla sola e in balia degli eventi. Da questo momento inizia la seconda
parte della favola, in cui Psiche è chiamata a superare varie prove, fino a
commettere una seconda infrazione che, sul punto di perdere definitivamente,
provoca invece l’intervento di Amore, che porterà
finalmente all’unione dei due e alla nascita, dal loro matrimonio,
della piccola Voluttà”.
Prevale, in
tutta la storia, una affascinante carica simbolica. Il pathos della
narrazione sfiora l’apice quando Psiche, a un passo dal superamento dell’ultima
prova, commette per la seconda volta l’errore della curiosità,
rischiando di compromettere la sua vita. Verrà, invece, salvata, evitando di
precipitare nella notte senza ritorno e accettata nel regno degli Dei.
“Ma cos’è in realtà questa indole che induce
all’errore? Amore e Psiche convergono e divergono, si oppongono e si
attraggono, complementari e autonomi, si respingono violentemente ed
inconsapevolmente ognuno non può fare a meno dell’altra. Dove Amore non vede
interviene Psiche, là dove invece Psiche è fallace giunge il coraggio di Amore.
Quello di Psiche è in realtà un lungo viaggio oscuro che porta all’amato sé stesso. La più grande paura
dell’uomo, quella dell’ignoto,
è in realtà l’inconsapevolezza del sé più profondo. Questo male di vivere penetra ogni ambito
della nostra esistenza, ma l’incoscienza del nostro male, cioè quel disagio
esistenziale che non riusciamo a spiegarci, altro non è che una scissione
dell’anima dal corpo, una frattura del proprio Io, della memoria che si stacca
dalla percezione del Tempo, una frattura che esce fuori ogni volta che facciamo
qualcosa senza averlo mai voluto, opprimendo e uccidendo ogni desiderio sul
nascere. Ma alla fine, vuoi o non vuoi, ecco che arriva l’abbraccio dell’altro,
che sia Donna, che sia Uomo, che siano tutti o sia tutto, mentre la sorte di
Psiche è segnata da una potenza ambigua, certo, ma tanto violenta quanto la più
grande: Amore, altissima forma di conoscenza”.
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Candlelight
Master,
Psiche
scopre Amore
olio
su tela -
XVII
secolo
Pinacoteca
Civica, Teramo
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La
mostra segue le diverse fasi del racconto di Apuleio – dalla passione alla
serenità raggiunta attraverso la speranza. Da qui, la consapevolezza che solo
Eros, che non si è mai rassegnato a vivere senza Psiche, riuscirà a risvegliare
l’amata con le sue frecce amorose.
E
non c’è stanza migliore di quella che io ammiravo da bambina, senza nemmeno
sapere bene quale fosse la storia integrale, ma che catturava completamente e
monopolizzava le mie giornate in meditazione osservando quelle scene che mi
stringevano il cuore. Non c’è artista migliore di Alfredo Pirri che con l’opera
Passi, avrebbe potuto attraverso lo
specchio, diventato pavimento, rielaborare la nostra visione di quella stanza.
Se nella quotidianità ci troviamo davanti a uno specchio che ci da una visione
frontale, qui lo specchio è sul pavimento, noi vi appoggiamo i piedi e
contribuiamo a romperne i pezzi formando frammenti sempre diversi,
riorganizzando l’opera, rimodulandola a ogni passo, mentre calpestiamo si
produce una percezione capovolta, per cui
l’alto del soffitto riflette nel basso del pavimento, rovesciandone i rapporti:
ciò che sta in alto precipita in basso. Il cielo diventa non la terra, non il
suolo, ma un sottosuolo che sprofonda e crea una voragine, un abisso, un gorgo
in cui il visitatore è risucchiato e rischia di annegare.
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Alfredo
Pirri -
Passi
Installazione
Mantova,
Palazzo Te, 2013
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Entrando
in quella stanza che sa di amore vero, in cui i muri profumano ancora
dell’alcova di Federico e Isabella Boschetti alla quale era dedicata la
costruzione di Palazzo Te, uno stupore diffuso dilaga. Entrando timidamente, la
paura di infrangere l’intimità di quella stanza, di quella che è stata il luogo
di passione dei due e allo stesso tempo luogo in cui è installato il pavimento
specchiante di Pirri che accentua la timidezza dello spettatore, come se stesse
varcando la soglia di un posto sacro e proibito. Quel pavimento non costringe
più a farsi venire il torcicollo per osservare lo stupendo soffitto a
baldacchino, lo specchio unisce il cielo con la terra, ne crea continuità, si è
come presi da un vortice che fa girare la testa e venire le farfalle allo stomaco,
proprio come quando si è innamorati. Guardando in basso, vieni risucchiato
verso l’alto e improvvisamente ciò che sta in alto diventa palpabile, come se
si potesse avere tra le mani, quell’amore puro ma tormentato di cui si narra
nella favola di Apuleio. Amore, Specchio
degli inganni, libro di Yukio Mishima che ha ispirato Alfredo Pirri nella
realizzazione di Passi. Amore,
tormentato, viscerale, ossessivo. Amore, come l’unica cosa che ti cambia la
vita e unisce con un tenero abbraccio i due protagonisti della fiaba nell’opera
di Canova mentre ci si avvia verso l’uscita.
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