martedì 23 luglio 2013

Mantova, Palazzo Te e la favola di Amore e Psiche specchiata nel pavimento di Alfredo Pirri


Quando ci accostiamo a un’opera d’arte, senza altri interessi se non quello di sentirla il più intensamente possibile, oltrepassiamo i limiti di ciò che non possiamo sapere, i limiti della nostra ragione. Secondo Kant e i romantici, l’artista gioca liberamente con la sua facoltà conoscitiva e secondo Schiller, la sua attività è come un gioco ed è solo quando l’essere umano gioca che diviene libero perché è lui a creare le proprie leggi.
Palazzo Te
Giulio Romano ha giocato sempre, ma soprattutto lo ha fatto, creando  il palazzo del Te, la sfarzosa residenza di Federico Gonzaga, costruita tra il 1526 e il 1534 sostituendola a una scuderia. Un monumento singolare esente da limitazioni di carattere pratico e tecnico in quanto Giulio aveva a disposizione mezzi i economici elargiti dalla famiglia Gonzaga e la disponibilità da parte di Francesco che apprezzava la poliedricità Giuliesca di essere architetto, artista erede di Raffaello e consigliere sulle scelte della fastosa corte gonzaghesca. Una sede che non solo ha visto brillare una dinastia sotto il profilo architettonico e artistico ma che ha avuto grandi albe anche nella cucina dominata dalla personalità dello chef Bartolomeo Stefani che, nel XVII secolo, scrisse un importante trattato di cucina in cui faceva notare come gli alimenti non fossero mai “contro stagione”.

Mantova ha fatto da cornice alla storia e ha visto passare sulla sua terra Matilde di Canossa e poi la intelligente Isabella d’Este, questa città ha aperto la creatività di artisti come Andrea Mantegna e architetti come Leon Battista Alberti e poi non per ultimo ha sostenuto il genio, compreso per fortuna, di Giulio Romano che l’ha portata a vette altissime. E a me ancora si chiede perché amo l’arte, beh, una risposta ovvia se sono stata cullata sul cammino delle chiese matildiche, ho fatto la prima comunione nel complesso Polironiano e ho giocato a nascondino a Palazzo Te. Se andavo in bicicletta vicino al Palazzo di San Sebastiano e mi sedevo a terra davanti alla camera degli sposi di Mantegna, che ve lo dico a fa? Amare Mantova è quasi un obbligo, così come amare l’arte che la attraversa e la invade in ogni suo briciolo di cemento.
Ancora una volta Mantova è riuscita a stupirmi e lo ha fatto non con la solita, tutt’altro che banale, vista della Rotonda di San Lorenzo, mi ha sorpresa riconducendomi per l’ennesima volta sul viale del Te, all’ingresso di quel palazzo che mi ha vista crescere e dove io cercavo rifugio ogni volta che la tristezza imperversava. Le stanze dei Cavalli o quella dei Giganti erano per me come una visione salvifica, una sorta di preghiera per esorcizzare il male, mi sedevo in mezzo alla stanza e i cavalli mi guardavano o i giganti mi cadevano addosso. E poi c’era quella sala, quella dove c’era una scena erotica di un uomo con il membro dritto che quasi mi faceva mettere le mani davanti agli occhi, come se fosse un tabù guardare una scena di sesso tra gli Dei, quella stanza in cui si raccontava la favola più romantica e d’amore che si potesse dipingere, la stanza di amore e Psiche. Quel luogo per me era pura magia, rappresentava la realizzazione e il lieto fine di una storia tormentata che sbocciava in un dolce abbraccio come nell’opera di Canova in cui Amore avvolge Psiche. Li, dove l’elaborazione formale, iniziava soltando nella zona che sta al di sopra delle porte, l’occhio spaziava nella profondità illimitata di lussureggianti paesaggi popolati da figure mitologiche nude e selvagge intente nei loro baccanali sparsi qua e la sopra la mia testa. Ovunque io guardassi, c’erano musicisti, amorini, atti festaioli, c’erano banchetti, vino e fiori che riempivano le scene. Ma ciò che più mi colpiva era la vicenda che si svolgeva nelle lunette e nei compartimenti ottagonali del soffitto, un soffitto che non era solo elemento di sfarzo ma concepito a guisa di una griglia attraverso la quale si vedono, violentando la visione tradizionale a favole della testa all’ingiù, le mutevoli fasi della meravigliosa fiaba di Apuleio.
Pietro Tenerani,  Psiche svenuta,  gesso   
1822 -  Museo di Roma
Non credo che ci sia Palazzo più significativo e stanza più bella al mondo che avrebbe potuto ospitare la mostra che in questi giorni ha aperto a Palazzo Te, AMORE E PSICHE, la favola dell’anima. Una mostra che ripercorre il tema dell’anima ricercandone le tracce simboliche e archetipiche nell’arte. Le opere, dislocate negli spazi della residenza gonzaghesca ci accompagnano alla riscoperta del mito di Amore e Psiche, favola narrata da Apuleio nella sua opera più importante, tra il IV e il VI nel libro de le Metamorfosi (o Asino d’oro), tra le righe, Apuleio ci trasmette tuttora il fascino dell’enigma inestricabile, difficilissimo da risolvere e non certo dall’interpretazione univoca.
Nel cuore di questa storia l’autore intreccia, come se fosse un magico dono, la trama principale e tante altre narrazioni secondarie incentrate sulla lussuria, sulla violenza e sulla crudeltà dell’uomo, e non esita a calare la narrazione in spiazzanti momenti da parodia.
La favola racconta di una meravigliosa principessa, Psiche, così bella da suscitare la gelosia di Venere, che la condanna a sposare una creatura spregevole. Intanto il dio Amore, preso dal fascino della giovane, decide invece di amarla, e ordina a Zefiro di trasportarla nel suo castello incantato, accudita da ancelle dalla natura incorporea. Quando Amore arriva dalla fanciulla le chiede di amarlo, ma ad una sola condizione: di non guardare il suo volto. Ma saranno le invidiose sorelle maggiori a spingere Psiche a compiere il peccato della curiosità, cioè a guardare il volto dello sposo e pronta ad ucciderlo nel caso si fosse rivelato come un mostro crudele e sanguinario. Nel tentativo di illuminare il suo volto, una goccia d’olio cade dalla lampada usata da Psiche e sveglia Amore che, resosi conto del tradimento, fugge via lasciando la fanciulla sola e in balia degli eventi. Da questo momento inizia la seconda parte della favola, in cui Psiche è chiamata a superare varie prove, fino a commettere una seconda infrazione che, sul punto di perdere definitivamente, provoca invece l’intervento di Amore, che porterà finalmente all’unione dei due e alla nascita, dal loro matrimonio, della piccola Voluttà”.
Prevale, in tutta la storia, una affascinante carica simbolica. Il pathos della narrazione sfiora l’apice quando Psiche, a un passo dal superamento dell’ultima prova, commette per la seconda volta l’errore della curiosità, rischiando di compromettere la sua vita. Verrà, invece, salvata, evitando di precipitare nella notte senza ritorno e accettata nel regno degli Dei.
Ma cos’è in realtà questa indole che induce all’errore? Amore e Psiche convergono e divergono, si oppongono e si attraggono, complementari e autonomi, si respingono violentemente ed inconsapevolmente ognuno non può fare a meno dell’altra. Dove Amore non vede interviene Psiche, là dove invece Psiche è fallace giunge il coraggio di Amore. Quello di Psiche è in realtà un lungo viaggio oscuro che porta all’amato sé stesso. La più grande paura dell’uomo, quella dell’ignoto, è in realtà l’inconsapevolezza del sé più profondo. Questo male di vivere penetra ogni ambito della nostra esistenza, ma l’incoscienza del nostro male, cioè quel disagio esistenziale che non riusciamo a spiegarci, altro non è che una scissione dell’anima dal corpo, una frattura del proprio Io, della memoria che si stacca dalla percezione del Tempo, una frattura che esce fuori ogni volta che facciamo qualcosa senza averlo mai voluto, opprimendo e uccidendo ogni desiderio sul nascere. Ma alla fine, vuoi o non vuoi, ecco che arriva l’abbraccio dell’altro, che sia Donna, che sia Uomo, che siano tutti o sia tutto, mentre la sorte di Psiche è segnata da una potenza ambigua, certo, ma tanto violenta quanto la più grande: Amore, altissima forma di conoscenza”.

Candlelight Master,  Psiche scopre Amore
olio su tela -  XVII secolo
Pinacoteca Civica, Teramo
La mostra segue le diverse fasi del racconto di Apuleio – dalla passione alla serenità raggiunta attraverso la speranza. Da qui, la consapevolezza che solo Eros, che non si è mai rassegnato a vivere senza Psiche, riuscirà a risvegliare l’amata con le sue frecce amorose.
E non c’è stanza migliore di quella che io ammiravo da bambina, senza nemmeno sapere bene quale fosse la storia integrale, ma che catturava completamente e monopolizzava le mie giornate in meditazione osservando quelle scene che mi stringevano il cuore. Non c’è artista migliore di Alfredo Pirri che con l’opera Passi, avrebbe potuto attraverso lo specchio, diventato pavimento, rielaborare la nostra visione di quella stanza. Se nella quotidianità ci troviamo davanti a uno specchio che ci da una visione frontale, qui lo specchio è sul pavimento, noi vi appoggiamo i piedi e contribuiamo a romperne i pezzi formando frammenti sempre diversi, riorganizzando l’opera, rimodulandola a ogni passo, mentre calpestiamo si produce una percezione capovolta, per cui l’alto del soffitto riflette nel basso del pavimento, rovesciandone i rapporti: ciò che sta in alto precipita in basso. Il cielo diventa non la terra, non il suolo, ma un sottosuolo che sprofonda e crea una voragine, un abisso, un gorgo in cui il visitatore è risucchiato e rischia di annegare.

Alfredo Pirri -  Passi
Installazione
Mantova, Palazzo Te, 2013
Entrando in quella stanza che sa di amore vero, in cui i muri profumano ancora dell’alcova di Federico e Isabella Boschetti alla quale era dedicata la costruzione di Palazzo Te, uno stupore diffuso dilaga. Entrando timidamente, la paura di infrangere l’intimità di quella stanza, di quella che è stata il luogo di passione dei due e allo stesso tempo luogo in cui è installato il pavimento specchiante di Pirri che accentua la timidezza dello spettatore, come se stesse varcando la soglia di un posto sacro e proibito. Quel pavimento non costringe più a farsi venire il torcicollo per osservare lo stupendo soffitto a baldacchino, lo specchio unisce il cielo con la terra, ne crea continuità, si è come presi da un vortice che fa girare la testa e venire le farfalle allo stomaco, proprio come quando si è innamorati. Guardando in basso, vieni risucchiato verso l’alto e improvvisamente ciò che sta in alto diventa palpabile, come se si potesse avere tra le mani, quell’amore puro ma tormentato di cui si narra nella favola di Apuleio. Amore, Specchio degli inganni, libro di Yukio Mishima che ha ispirato Alfredo Pirri nella realizzazione di Passi. Amore, tormentato, viscerale, ossessivo. Amore, come l’unica cosa che ti cambia la vita e unisce con un tenero abbraccio i due protagonisti della fiaba nell’opera di Canova mentre ci si avvia verso l’uscita.

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